Giuseppe Jovine, nel suo discorso sulla poesia
dialettale molisana (Benedetto Molisani, pag. 79), afferma fra l’altro:
– Le tappe della storia della poesia dialettale molisana sono ovviamente
segnate, al pari delle tappe della poesia dialettale delle altre regioni, dai
“tentativi di raccordo” come osserva con esattezza Alberto Mario Cirese “di
esperienze regionali e di più ampie prospettive culturali che paiono essersi
dotate di mutua salute, liberandosi le une dall’angustia provinciale e le altre
dall’astrattezza e dal cosmopolitismo”. E conclude a pagina 91: – La fioritura
di più di un poeta molisano valido ed autentico sta a dimostrare, come ha
recentemente osservato Umberto Bosco recensendo Lu Pavone di Giuseppe
Jovine, che “la carenza di poeti nel Mezzogiorno nei secoli passati è dovuta a
ragioni storiche e non già, come sostennero il Carducci e, stranamente il
Croce, a costituzionale incapacità poetica dei meridionali”. Anche il Molise
dunque si va allineando, almeno sul piano dell’arte poetica, con le altre
regioni d’Italia.
A convincerci della validità critica del giudizio
joviano ci è bastata la lettura della presente silloge in vernacolo del poeta
molisano Benedetto Pistocco, nato a Prata Sannita (già comune della provincia
di Campobasso, ora in quella di Caserta) e residente a Monfalcone (Gorizia) da
molti anni, già noto alla critica per le sue sillogi precedenti: Canti di
Prata (1980), Sull’orlo del tempo (1982) e Puisie piccirélle
(1983). A proposito di questa terza raccolta avevamo scritto: “Un’attenta
lettura di queste poesie dialettali ci spinge a rilevare che, sotto l’apparente
pittura ambientale e al di sopra dello studio del paesaggio, emerge un
sentimento che va meglio analizzato criticamente. Infatti, per Pistocco il
recupero dialettale non è uno dei tanti casi di traduzione dalla lingua al
vernacolo, ma si configura come il risultato di un sentimento che si evolve
originariamente nel dialetto stesso come strumento primario d’espressione
lirica e come vera matrice di ogni linguaggio aulico e raffinato. Cosicché la
poetica dialettale di Pistocco supera lo sperimentalismo bilingue e si collega
ad una zona autentica che esprime l’anima del popolo riflessa nell’anima del
poeta. Inoltre, accanto al recupero semantico del linguaggio popolare va
segnalato il canto della poesia paesana che fa sopravvivere una cultura corale,
orale e folcloristica. Da Puisie piccirélle emerge la vena gnomica,
satirica ed epigrammatica; la compassione per i poveri e per i diseredati;
quella protesta sociale che denuncia l’iniquità, il dolore e la povertà.
Pistocco riscopre nel dialetto l’unica possibilità espressiva di poesia
autentica che possa recuperare i veri valori umani messi in relazione ai
carismi spirituali. Tali valori e tali carismi sono presenti nell’animo del
poeta, così come sono viventi nel suo connubio col popolo. Cosicché, dietro
l’apparente ironia bonaria di Pistocco si cela un’anima tormentata che soffre
per i malanni che affliggono l’umanità (La grandine, per esempio; La
guerra; L’ingiustizia sociale); ragion per cui una vena di pessimismo
esistenziale invade le sue poesie dialettali che cantano la tenerezza paesana
dei contadini con una voce semplice, umile e rassegnata.” (Voce Isontina,
primo ottobre 1983 pag. 15; Il Messaggero Veneto, 2 ottobre 1983, pag.
5).
I summenzionati giudizi tematici e semantici
potrebbero qui ripetersi a proposito di questa nuova silloge, Canti re Léte,
che presentiamo con immenso piacere: Pistocco rivela nuovamente (e con più
intensità lirica) la sua vera vocazione dialettale e s’inserisce, a giusta
ragione, nell’ambito dei migliori poeti dialettali della ventesima regione
d’Italia che vanta nomi illustri quali Eugenio Cirese, Giuseppe Altobello,
Michele Cima, Giovanni Cerri, Gildo Funaro, Sergio Labanca, Pasquale Guglielmi,
Emilio Spensieri, Nina Guerrizio, Giuseppe Jovine, Lino Battista, Pasqualino
Fattore, Giovanni Barrea, Rino D’Adderio, Fernando Anzovino, Giuseppe Perrotta,
Raffaele D’Andrea, Luigi Capriglione, Raffaele Capriglione, Domenico Sassi,
Luigi Antonio Trofa, Giovanni Eliseo, Camillo Carlomagno, Donato Amicarelli,
Valentino Nero, Michele Di Ciero, Vincenzo Ciallella e tanti e poi tanti altri.
In questa panoramica, del tutto limitata, dei poeti
dialettali nell’ambito del Molise, va collocato il nome di Benedetto Pistocco.
I suoi Canti re Léte prendono il titolo dal fiumicello Lete che, a
prescindere dalla reminiscenza dantesca dell’omonimo fiume infernale (nei
documenti medioevali era scritto Ete ed anche Hete e solo successivamente ha
incorporato l’articolo), sorge nel Matese, ne percorre l’altopiano e poi,
giunto a Letino, s’inabissa nelle grotte di Cavuto per riemergere infine 200
metri più in basso nella vallata della Rava Secca (Fràtemu Léte):
“Parienti stritti i’ e tté, ohi frate Léte: / Tutt’e ddui sémmu figli a gliù
Matése. / Com’a mmé pazziataru ra uaglione, / te mini a capusotta pe Caùtu, /
fai a ‘nnascunnariégliu cu lle Ravi, / po’ cchiù cujètu e forte scigni a
sciumu. Tenémmuci pe ‘mmani e
jamm’a mare.”
Le note che traducono il vernacolo in lingua
italiana sono curate con molta puntualità ed aiutano il lettore a comprendere
meglio il significato riposto nelle poesie; lo stesso effetto efficace non
avrebbe certamente la traduzione completa delle poesie in italiano: si
ricadrebbe così nello sperimentalismo bilingue che indurrebbe il lettore a
leggerne solo la traduzione.
La tematica di Pistocco così come si evolve in
questa silloge, contiene il sentimento della natura (Primavèra, Staggione,
Ilàta, Primavèra corta); il motivo della morte (Mò fa ddui anni, Turnà,
Com’a sèmpe, Puru ché chiove); alcuni eventi leggendari e storici (Gli
arrabèllu, Calibardina, Tétésca), la vecchiaia (Spècchiu, La
vicchiarèlla); l’ironia paesana (Paisiégliu, Vacanze, ‘Nu ciucciu e ‘na
carta, Ballarèlla); il duro destino esistenziale (Priggione, Scélle,
Cane ‘nfussu, Scéuta); l’emigrazione (Partènza, La diga) ed il
sentimento amoroso (‘Nnammuratu, Si tu m’avissi rittu, Pricipiziu).
Mentre si lascia all’attento lettore il compito di scoprire altri temi nelle
varie poesie, ci rendiamo conto che la tematica pistocchiana rende un mondo
provinciale immobile, atavico, fatalistico e tragico. Domina appunto queste
poesie un pessimismo intenso, il cui cromatismo musicale non è mai esterno e
decorativo anche se legittimato dall’arcaicità del mondo magico-rurale che
costituisce il perno ed il retroterra dell’ispirazione del Nostro. Buon
conoscitore dell’anima del popolo molisano e di certe leggende popolari che
sono emerse dal mondo storico-contadino, Pistocco trova nelle sue radici agresti
la possibilità di speranza; di salvezza solo attraverso il lavoro quotidiano e
la susseguente catarsi del canto poetico.
In conclusione, Pistocco analizza i malanni che
affliggono il suo animo ed enumera le disillusioni dell’umanità intera, ma non è
capace di additarne una possibile soluzione. Ragion per cui una certa tristezza
esistenziale pervade la precarietà contingente del suo mondo poetico che
sovrasta certe giornate molisane piene d’inedia e di solleone: neppure la lunga
residenza nel Friuli ha potuto cancellare tale ricordo nell’animo sensibile del
poeta. La sua voce dispiega un canto popolare che sarebbe meno corale e meno universale
se fosse più romantico e meno pessimistico. Pistocco, infine, senza affatto
ricorrere alle ipotesi della questione meridionale, riesce a tradurre il dolore
atavico dei contadini (che oggigiorno abbandonano le loro terre per recarsi
altrove) dal microcosmo regionale al macrocosmo del cielo e della terra.
Verona, New Jersey (U.S.A), novembre 1983